lunedì 19 maggio 2014


 La Varia di Palmi (Rc)   


"Li bellizzi su a lu Scigghju, janchi e russi  a la Bagnara, li forzuti sunnu a Parmi chi si 'mbuttanu la Vara" Le bellezze sono a Scilla, bianchi e rossi a Bagnara Calabra, i forzuti sono a Palmi che trasportano la Varia»); così diceva un vecchio detto popolare palmese, riferendosi alla Varia di Palmi.
La varia di Palmi  è una festa popolare cattolica che si svolge in onore di Maria Santissima della Sacra Lettera, patrona e protettrice della città, l'ultima domenica di agosto con cadenza pluriennale.
E’ la più grande manifestazione popolare calabrese e viene riconosciuta come "patrimonio immateriale" delle regioni d'Italia dall'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia rientrando, con altre quattro feste religiose italiane, nel procedimento di riconoscimento da parte dell'UNESCO come "patrimonio immateriale dell'umanità”.

La Varia o "Vara", è una nuvola a forma conica irregolare che rappresenta l’assunzione al Cielo della Vergine Maria in corpo ed anima. In realtà si tratta di una struttura, un carro sacro costruito su una base di legno di quercia, chiamato “Ccippu” e sulla quale base viene montata una struttura in ferro con ingranaggi girevoli che rappresentano il roteare degli astri, per un’altezza complessiva di metri sedici e del peso di duecento quintali. La gigantesca macchina viene trainata a spalla da 200 giovani detti “mbuttaturi” scelti tra gli appartenenti alle cinque tradizionali corporazioni che si riferiscono ai vecchi mestieri della città, per cui ci sono i contadini, i carrettieri, i bovari , gli artigiani ed i marinai; ciascuna corporazione viene schierata sotto una delle cinque travi collocate nel “Ccippu”; oltre ai 200 ‘mbuttaturi esistono due grosse corde lunghe 150 metri che servono per il traino della struttura, alle corde si posiziona liberamente la cittadinanza. Sul “Ccippu” trovano posto i 12 apostoli; sui lati della nuvola a varie altezze troviamo gli angioletti che sono bambine di età compresa tra i sette e gli 11 anni; in alto alla Varia un giovane forte e coraggioso rappresenta il  Padreterno; in cima una bambina detta “Animella” (di età compresa tra i 10 ed i 12 anni scelta con votazione popolare), rappresenta la Vergine Assunta in Cielo. I festeggiamenti hanno inizio il giorno della Festa di San Rocco. Il 16 agosto alle ore 10.00 “U Ccippu cala all’arangiara” vale a dire la robusta base in legno di quercia viene trasportata nel sito ove sarà costruita la Varia e da dove essa partirà con la spettacolare “scasata” alle ore 18.00 dell’ultima domenica di agosto. Dalla mattina del 16 agosto le sapienti mani degli artigiani lavoreranno incessantemente per costruire, allestire ed abbellire la complessa e maestosa struttura.

curiosità

La  storia della Varia di Palmi trae origini da quella messinese, in quanto si narra che durante un’epidemia di peste scoppiata a Messina nel 1575, la città di Palmi, anch'essa colpita lievemente dal morbo, mandò viveri in aiuto ai messinesi. Superata la calamità, la città di Messina, devota alla Madonna della Sacra Lettera, in segno di riconoscenza verso la cittadina calabrese, donò a Palmi uno dei preziosi capelli della Vergine.

Da qui il culto e la venerazione per la Madonna della Sacra Lettera, patrona della Città di Palmi, così come a Messina. 
Il termine “Varia” indica la “bara”,  da cui derivò poi “Vara”, ovvero la struttura che rappresenta l’assunzione di Maria in cielo.



L’ultima Varia risale al 2008, quest’anno la manifestazione riprende dopo 5 anni.

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Riferimenti:









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CORAJISIMA
                   RITUALE MAGICO    di  FRANCO VALLONE


Hanno bocca, occhi e naso cuciti con il filo nero, ricordano tanto quelle antiche bamboline vudù utilizzate nelle pratiche magiche e, in fondo, un pizzico di magia questi piccoli fantocci appesi sulle porte delle case la contengono anche. Sono le Corajisime, quaresime, tristi bambole di pezza che in questi giorni possiamo ritrovare a Caulonia, Placanica e Bova in provincia di Reggio Calabria, ad Amaroni, San Floro, in provincia di Catanzaro, a Briatico in provincia di Vibo Valentia e in tanti altri paesi della Calabria e del Meridione d'Italia.
Un'usanza antica, arcaica, che ha una originaria funzione pagana legata al culto dionisiaco, oggi mantenuta in vita da anziane signore legate saldamente alla tradizione. A Briatico la signora Concetta Francica per anni e per decine e decine di volte ha rinnovato l'antico rito. Oggi lei oramai è troppo anziana per appendere la Corajisima ed ha passato il testimone tradizionale alla figlia Jole che continua e continuerà annualmente ad appendere la strana bambolona di pezza. A poche centinaia di metri dall'uscio di casa Francica, nello stesso quartiere Baraccone, la signora Carmela espone, con le stesse procedure ritualizzate, una seconda Corajisima.

Corajisima di BriaticoLe Corajisime, le Curemme, Quarjisime, o anche Quaremme, sono fantocci vestiti di nero e di bianco, i colori del lutto, hanno in mano un fuso con della lana ed una rocca. Sotto il vestito delle Corajisime un bastoncino struttura, avvolto da stracci, con un limone conficcato in basso (in alcune zone anche una patata, un limoncello o un'arancia selvatica). A questo limone si inseriscono, in modo circolare, sette penne di gallina, sei bianche ed una nera o colorata. Il limone, l'arancia o la patata rappresenta il sesso femminile, le sette penne l'interdizione temporanea al rapporto sessuale, il periodo d'astinenza quaresimale, la quarantena.
Un antico calendario simbolico, magico rituale, che ad Amaroni è completato da collane di uva passita e fichi secchi e in altri paesi da un pezzo di guanciale, un peperoncino e uno spicchio d'aglio, che scandisce i giorni di magra dopo il periodo grasso. Carnevale e Quaresima, infatti, per la cultura popolare, sono fratello e sorella ma anche marito e moglie, e con la morte di re Carnevale iniziano, in attesa della Pasqua, le sette settimane di Quaresima. Ogni domenica quaresimale, dopo aver partecipato alla santa messa, da questa simbolica bambola rituale, viene estirpata una penna bianca. L'ultima penna, quella nera o colorata, viene tirata dal limone proprio la mattina di Pasqua ad indicare la fine dell'astinenza e del tempo quaresimale.
L'astinenza sessuale comunque non era la sola limitazione di questo periodo. Durante le sette settimane non si potevano mangiare dolci, non ci si doveva pettinare i capelli, non si spazzava il pavimento, non si mangiava carne, non si dovevano aggiustare i letti, non si doveva cucire e non si doveva cucinare in modo troppo elaborato. Nascono così tanti proverbi calabresi che ricordano queste limitazioni ma anche la successiva fine del periodo d'astinenza con le campane "sciolte" e suonate a gloria del giorno di Pasqua: "Gloria sonandu campanara mangiandu" (Gloria suonando dolci mangiando) o "Gloria sonandu a machina passando" (Gloria suonando a macchina cucire). Ed anche nei campi e sul mare tutte le attività lavorative si fermavano per rispetto al Cristo ed alla sua Passione: "'U ventu 'no volava, 'u mari 'no vangava, Corajisima aspettava" (Il vento non volava, il mare non bagnava, Quaresima aspettava).
La Quaresima ed i suoi rituali calabresi sono legati ai ritmi della natura, al ciclo delle stagioni, ma anche al mondo sotterraneo e della resurrezione della terra per l'arrivo della primavera. Numerosi sono i riferimenti tra queste usanze, il mondo antico della Magna Grecia, e i rituali praticati in occasione della semina a devozione di Persefone (e successivamente nel periodo Romano con Proserpina). Anche in tali periodi, della durata di quaranta giorni, era uso piangere, lamentarsi ed astenersi dai doveri coniugali e da ogni divertimento. Un calendario simbolico colorato di nero e di bianco, un momento soglia di morte e di vita, di negativo e di positivo, di buono e di cattivo allo stesso tempo, contrapposizioni forti consegnate da millenni ad una vecchia bambola magica con la quale segnare il tempo in attesa della rinascita, della resurrezione e del risveglio della natura.



Fonti: http://www.tropeamagazine.it/tropeanews/archivio/2010/2bimestre/corajisima.pdf



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giovedì 27 dicembre 2012



IL FUOCO DELLA TRADIZIONE


Le origini dei falò rimandano ad un’ancestrale ritualità coincidente con il solstizio d’inverno che creava ansia e timori nell’uomo, causati dall’affievolirsi della luce del sole, fonte di calore e vita. Per aiutare l’astro a recuperare il vigore, si accendevano grandi fuochi, i quali avevano molteplici funzioni: simboleggiavano la purificazione dal peccato originale e venivano utilizzati anche per bruciare tutto ciò che di negativo aveva caratterizzato il vecchio anno.

Un chiaro riferimento alla simbologia dei falò, lo troviamo anche nella letteratura. La luna e i falò di Cesare Pavese richiama perfettamente al ciclo delle stagioni che affianca tutte le vicende del destino dell'uomo.
Nel racconto, sul piano simbolico, ai falò dell’infanzia accesi di notte durante le feste contadine  - che simboleggiano  fertilità ed abbondanza dei raccolti  -  si contrappongono altri falò che comportano per il protagonista la perdita delle illusioni e la decisione di bruciare  il proprio passato. Infatti la casa della sua infanzia è bruciata dallo stesso falò che nei suoi ricordi illuminava le notti estive e rappresentava un grande momento di speranza nel futuro.

In diversi punti della Calabria, lo spettacolo dei falò è suggestivo.

A Fronti (Cz), nella notte della vigilia di Natale, è tradizione, come in molti altri paesi della Calabria, accendere un grande falò che arde per tutta la notte e spesso per tutta la giornata di Natale.
Un tempo, era usanza lasciare la legna per la “focara” davanti casa: i giovani giravano per raccoglierla e se non ne trovavano, a volte, la rubavano al padrone di casa, insensibile alla tradizione popolare. Veniva raccolta già molti giorni prima, ammucchiata nella piccola piazza antistante la chiesa, con l'aiuto di "carri", costruiti dagli stessi ragazzi con tavole e cuscinetti a sfera. Tutti i "Fruntari" o quasi, contribuivano nel dare un po’ di legna da ardere: "I ligna ppè lla focara de Natale" (la legna per il falò di Natale).

La popolazione si recava in chiesa per la Santa Messa della vigilia di Natale, al termine della quale, quasi alla mezzanotte, si assiepava intorno alla "focara" per assistere all'avvio delle fiamme, per poi organizzare canti natalizi e balli al suono dell'organetto e dell'armonica.

Le persone restavano intorno al fuoco, alternandosi nel compito di rinvigorire le fiamme fino all’alba, quando ormai stanchi ed assonnati, rincasavano soddisfatti e sereni.

I ragazzi, nel crotonese, giravano da un falò all'altro e premiavano gli organizzatori delle focare con fichi, mele, olio, noci e miele forniti dai più ricchi del paese.

A Santa Sofia d’Epiro, nel cosentino, il grande falò della vigilia di Natale non viene spento ma viene lasciato estinguersi da sé consumandosi in un paio di giorni. E’costume prendere un tizzone dal fuoco di Natale e conservarlo nelle proprie cose. Si ritiene infatti che il tizzone abbia il potere di allontanare i fulmini dalle case e il maltempo, per questo, veniva esposto sul davanzale di una finestra all'avvicinarsi del temporale.

Alcuni falò, nel periodo natalizio, accompagnano anche il passaggio delle divinità. A San Marco Argentano (Cs), il giorno della vigilia dell’Immacolata, i giovani andavano a raccogliere le canne per il luminerio.  Veniva allestito uno scheletro a forma di albero e, subito dopo cena, tutta la famiglia usciva di casa e dava fuoco al proprio luminerio che, per tradizione, doveva necessariamente consumarsi tutto. Alcuni studiosi affermano che la tradizione dei "luminari" alla vigilia dell'Immacolata, derivi in realtà dall'accensione di fuochi per festeggiare il dogma dell'Immacolata Concezione, proclamato da Pio IX nel 1854.





  





Fonti:

http://www.fronti.it/index.htm

http://www.impressionimeridiane.com/





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mercoledì 31 ottobre 2012



....ndi dati i beneditti morti?



Comune di circa 6.000 abitanti in provincia di Vibo Valentia,  Nicotera sorge a circa 210 metri di altezza sopra il Mar Tirreno.  Le affascinanti caratteristiche di questo territorio fanno da cornice ad una delle più belle, artistiche e suggestive città della Calabria ricca di storia e di arte.

Oltre ad essere un centro turistico di notevole importanza, la storia di Nicotera è impregnata di tradizioni popolari che fanno della cittadina l’epicentro di una famosa credenza ormai sbarcata oltreoceano.
A fine Ottocento, la notte del 31 ottobre molti ragazzi si divertivano ad accendere lumi nelle zucche  e le collocavano sui balconi.
La zucca  illuminata, era la maschera di un rituale funebre molto contadino, legato appunto alla produzione stagionale di questo ortaggio che, secondo la nostra tradizione, rinsaldava il vincolo tra vivi e morti.

Lombardi Satriani, affermava che: “Nel giorno dei morti i bambini andavano per le case, portando una zucca svuotata e lavorata a mò di teschio, nel cui interno era accesa una candela. Con questa maschera mortuaria chiedevano: ndi dati i beneditti morti? Ricevendone in cambio cibi e più raramente soldi”.

I bambini erano i veri protagonisti di questa festa, proprio perché bisognava educare  i ragazzi sin dall’infanzia ad avere un approccio positivo con la morte.

Si sugella, attraverso lo scambio simbolico dei doni, la ritrovata unità tra vivi e morti:
coesione minacciata dalla separazione e allontanamento del morto come cadavere.

In altri comuni calabresi,  nel  giorno d’Ognissanti,  i bambini poveri giravano  per il paese facendo la questua in nome dei morti, ricevendo fichi secchi, mandorle e noci.

Questa tradizione venne importata in America con l'emigrazione degli anni '90 e divenne la festa dei morti più famosa al mondo.











Differentemente di come veniva festeggiata in Italia, in America, Halloween assumeva spesso il carattere di un “carnevale” notturno slegato completamente dai riti religiosi. Spesso la pratica del “Dolcetto o scherzetto?” non richiamava simpatie dal punto di vista educativo: chiedere dolciumi "minacciando" scherzetti  lasciava perplessi molti genitori.

Mentre per i calabresi, la festa di Ognissanti si collegava al ricordo e alla commemorazione dei defunti, ricambiato col dolcetto, per gli americani è diventata un grosso business, una festa commerciale, fatta di maschere, streghe, vendita di vestiti lugubri.


Curiosità

A Zaccanopoli, secondo alcune testimonianze attestate da Lombardi Satriani, l'ultimo giorno di ottobre si riempivano di acqua le bottiglie, fino all'orlo, perchè si riteneva che la notte passassero i morti, bagnandovi le dita, o secondo altre fonti il dito mignolo. Secondo altre versioni, si riempivano i bicchieri per far bere i morti.

In Lucania, invece, Ernesto De martino racconta che la notte del 2 novembre, si preparava del cibo sul davanzale della finestra, in modo che, al passare dei morti alla mezzanotte, potessero cibarsi.

Anche in Aspromonte, nel mese di novembre, la sera si lasciava la tavola apparecchiata e tutti gli oggetti sparsi per la casa, perchè si credeva di un ritorno temporaneo dei defunti.

Ad Orsara di Puglia, un piccolo paese montano della provincia di Foggia, la notte tra l'1 ed il 2 di novembre si celebra l'antichissima notte del "fucacost" (fuoco fianco a fianco): davanti ad ogni casa vengono accesi dei falò (in origine di rami secchi di ginestra) che dovrebbero servire ad illuminare la strada di casa ai defunti (in genere alle anime del purgatorio) che in quella notte tornano a trovarci. Sulla brace di questi falò, poi, viene cucinata della carne che viene mangiata in strada e offerta a i passanti. Un tempo, nelle vie di pietra del borgo orsarese, davanti ad ogni uscio di casa, si usava porre dell'olio in una bacinella piena d'acqua sormontata da un treppiede con una lampada: alla fioca luce della candela, si poteva assistere, secondo la credenza, alla sfilata delle anime del purgatorio. Nella giornata dell'1, nella piazza principale, si svolge, inoltre, la tradizionale gara delle zucche decorate (definite le "cocce priatorje" - le teste del purgatorio).




Foto:  A Jack o' Lantern made for the Holywell Manor Halloween celebrations in 2003. Photograph by Toby Ord on 31 Oct 2003.


Fonti:  R. LOMBARDI SATRIANI, Credenze popolari calabresi.

Comune di Orsara di Puglia (FG).







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mercoledì 24 ottobre 2012



A  CAVALLO DEL SANTO


San Demetrio Corone (Shën Mitri in lingua arbëreshë) affacciata sul versante destro della bassa valle del Crati, è tra i centri più importanti delle comunità arbëreshë della provincia di Cosenza, che conserva la lingua, i costumi, il rito greco-bizantino, la cultura e l'identità etnica propria.

I sandemetresi festeggiano, come previsto dal calendario liturgico bizantino, il loro patrono San Demetrio Megalomartire, il 26 ottobre.

Nei giorni precedenti la festa, si rinnovano remote tradizioni radicate nel cuore della gente e vissute ogni anno con grande partecipazione.

Il primo ottobre, all'alba, alcuni colpi annunciano l'inizio del mese dedicato al Santo protettore.

I festeggiamenti religiosi iniziano ufficialmente il 17 ottobre con il novenario pomeridiano, per poi concludersi l’ultimo giorno con la Santa Messa e, a seguire, la suggestiva processione, con la statua del Santo trasportata lungo le principali vie del paese dove vengono allestiti banchetti con dolciumi e bibite. Dai balconi, per l’occasione, vengono esposte le preziose palaca, le coperte lavorate a mano in onore di San Demetrio.

Lo stendardo Santallti, che precede la processione lungo i nuovi rioni e le suggestive viuzze del centro storico, sarà messo all’asta secondo l’usanza e, agli aggiudicatari, andranno le offerte in denaro e gli animali domestici donati allo stendardo durante l'anno.

Il cammino del santo viene accompagnato dalle note del “Kenga e Shën Mitrit”, l’antico inno a S. Demetrio cantato in albanese dai fedeli durante le funzioni.

Un’ usanza interrotta nel lontano 1969 è il lancio del grande pallone votivo multicolore, “Paluni i Shën Mitrit", ripresa in questi anni dal Museo Etnografico e dalla Pro Loco locale.





Il giorno della vigilia, dal portone principale della chiesa, esce il “cavallo di S. Demetrio”, costruito con stecche di canna ricoperte di variopinta carta velina. Portato a spalla in giro per il paese, il "Kali i Shën Mitrit", è foriero di messaggi augurali e raccoglie le varie offerte della popolazione.





Il culto di S. Demetrio, è ampiamente diffuso in Grecia, Ungheria, Bulgaria e Russia, nonché nelle regioni dell’Italia meridionale: Piana degli Albanesi (PA); Mosorrofa ( frazione di Reggio Calabria); Sassoferrato (AN); Morigerati e Matonti (SA); S. Lorenzo in Campo (PS); Oschiri (SS); Napoli; Tropea; Grupa (frazione di Aprigliano). Alcuni paesi portano anche il suo nome: oltre a questo centro, che nel 1863 ha assunto la specificazione di Corone, è da citare S. Demetrio né Vestini (AQ).

Alcuni dubbi sull’identità del Santo, vissuto nel III secolo, non sono stati ancora del tutto delucidati.
Secondo gli antichi martirologi Demetrio era un diacono, altri documenti testimoniano invece la sua elevazione a proconsole della Grecia, ciò giustificherebbe le sue vesti di soldato nelle immagini e icone a Lui dedicate, e dove molto spesso è in groppa ad un cavallo.


              
Foto 1:    http://www.arbitalia.it/speciali/San_Demetrio_2003/index.htm

Foto 2:    http://www.arbitalia.it/speciali/san_demetrio_2004/index.htm 


Fonti:   http://www.arbitalia.it



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lunedì 1 ottobre 2012


San Michele Arcangelo a San Nicola dell’Alto (Kr)


La festa di San Michele Arcangelo a San Nicola dell’Alto (Kr), si svolge ogni prima domenica di maggio, eccetto quando in questa data ricorre la festa del primo maggio (festa dei lavoratori), che fa rinviare i festeggiamenti alla seconda domenica del mese.
La festa è preceduta da un periodo di novena che viene celebrata nella chiesa di San Michele ubicata sull’omonimo monte posto nella parte sudorientale del paese. Un'antica tradizione, tuttora viva, vuole che i fedeli che hanno ricevuto una grazia si rechino alla messa di novena risalendo il monte a piedi scalzi.

I festeggiamenti iniziano con il giro per le vie del paese della banda musicale e degli zampognari, a cui segue la messa sul monte. Alla messa segue il pellegrinaggio di discesa, durante il quale l’effige del Santo, portata a spalle dai fedeli, viene portata giù in paese. Alla fine della processione la statua viene riposta nella chiesa madre, dalla quale uscirà la mattina successiva per la processione nella restante parte del paese.
La sera del lunedì la festa si conclude con il pellegrinaggio di salita che si tiene dopo il tramonto. Il Santo sempre trasportato a spalle dai fedeli e accompagnato da una suggestiva fiaccolata viene ricondotto sul monte dove verrà riposto in attesa dell’anno successivo.
Nel corso delle processioni  la gente mette ai balconi le coperte più belle (in genere ricamate) e, in segno di grazia ricevuta, offre al santo il tipico “mostacciuolo” la cui forma riproduce spesso l’oggetto della grazia.





Da qualche anno, anche il 29 settembre, giorno in cui ricorre la festa dei tre arcangeli, si svolge una piccola processione in cima al monte. Recentemente il nuovo parroco ha voluto inserire nella cerimonia un nuovo segno, ossia la consegna al Santo ai piedi del monte (dove inizia l’abitato) della chiave del paese da parte del sindaco.

Anticamente, per la festa,
le attività lavorative erano sospese e la piazza si riempiva lentamente di contadini, minatori ed artigiani con l’abito della festa, la camicia bianca ed il cappello in testa. La gente saliva sul monte dove veniva celebrata la messa e, subito dopo, la statua, adornata di catenelle d’oro, di numerosi altri ex-voto e di nastri, veniva preparata per il trasporto in processione. Alcuni zampognari, con i loro strumenti, annunziavano l’approssimarsi della processione. La processione percorreva sistematicamente ogni via del paese, perché ogni famiglia per dare la sua offerta esigeva che il Santo passasse davanti alla propria casa. C’era poi chi aveva fatto un voto particolare e chiedeva che la statua sostasse su un altarino, predisposto davanti alla porta di casa. Qui la banda suonava un’allegra nenia, il parroco recitava una preghiera e la processione riprendeva il suo cammino. Attorno alle due pomeridiane la processione giungeva nella chiesa madre, in paese, e terminava così la prima fase che veniva ripresa il giorno seguente in modo da completare il giro di tutte le vie del borgo. La gente tornava a casa a pranzare con i parenti venuti dai paesi vicini e spesso a tavola c’era anche un musicante o uno zampognaro.
Era  consuetudine, durante la festa patronale in onore a S.Michele Arcangelo, divertirsi con una serie di giochi: il gioco delle pignatte, il gioco del gallo, l’albero della cuccagna e ballare la danza della "scioca" che assumeva forme diverse secondo le circostanze liete o infauste. 

Gli anni seguenti alcune usanze cambiarono….era l’alba di una nuova generazione.










Foto e info:

Gruppo fb "San Michele Arcangelo a San Nicola dell'Alto"

http://web.tiscali.it/pulsar2/




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domenica 26 agosto 2012


Riflessioni... d'estate











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