lunedì 19 dicembre 2011


.....è forse il sonno della morte men duro?


 Il vincolo d'amore fra morti e vivi è un dono divino e soprannaturale, in quanto fa sopravvivere l'uomo oltre i limiti dell'esistenza terrena.
Secondo Foscolo, per mezzo di questa corrispondenza di affetti si continua a vivere con l'amico estinto e, il defunto, continua a far sentire a noi la sua presenza se "la terra che lo accolse da bambino , offrendogli l'estremo rifugio della tomba, ne salva e ne preserva i resti mortali dalla furia delle intemperie e da chi non ha sacro quel culto; e una lapide ne ricorda il nome, e un albero ne consola le ceneri con le sue confortevoli e profumate ombre”.
Se esiste un rapporto così profondo tra vivi e morti, se c’è l’illusione del sepolcro come  mezzo di “comunicazione”  e strumento di ricordo, perché molti provano ancora angoscia e paura  quando varcano la soglia del cimitero?
Cosa fa paura?
I cimiteri assomigliano un po’ a delle grandi città:  entri  dalla soglia principale, passeggi tra i viali e incroci gli sguardi di persone che  sembrano dirti qualcosa attraverso la loro fotografia.
A volte ogni foto sembra raccontare perfettamente  la vita passata di ogni defunto.
In questa “città della morte”  il rumore del silenzio è forte.
C’è il pescatore; il panettiere; la studentessa, la casalinga, il musicista e una nota particolare e triste sono gli anziani e i bambini,  due estremi  di vita diversi ma allo stesso tempo vicini : bimbi che vedono la loro vita spezzata in un istante e anziani che attendono la morte in una triste rassegnazione.
Forse è proprio questa triste rassegnazione ad infondere paura?  Del resto, se andiamo al cimitero questa consapevolezza è sempre più vicina, inverosimilmente quasi tangibile.
Dunque, forse, addentrandoci nel  materialismo pessimistico di Foscolo  siamo consapevoli che la morte è distruzione totale, fisica delle cose, e non lascia alcuna speranza di sopravvivenza.
 Il defunto privo di ogni sensazione non trova  conforto nella tomba  perché essa è inutile.
Lombardi Satriani nel “Ponte di San Giacomo” sottolinea che “la rimozione individuale o collettiva della morte non è mai operazione definitivamente vincente. La morte ritorna come spettro, presenza cangiante, che percorre sotterranei, meandri, scorciatoie e diffonde angoscia irriconosciuta, nullificando lo sforzo dell'uomo."
Lo sforzo dell’uomo è proprio quello di  pensare alla morte come un momento particolare dove “si passa a miglior vita”;  si sdrammatizza questo evento essenziale della vita per non cadere nell’angoscia del non sapere.  Il grande mistero della vita è proprio quello di non sapere cosa ne sarà di noi dopo la morte, è questa la grande angoscia.
Come si supera questa angoscia?
E qui ci si aggrappa alla Verità assoluta dei Vangeli  o alla tradizione popolare, che protegge l’anima del defunto e lo accompagna al dolce sonno  in “liturgie rituali” a volte molto particolari.
"La morte non è avvertita come evento che si realizza in un unico momento, ma come decorso, processualità, passaggio. Avvenuto il decesso, si ha cura di chiudere gli occhi del cadavere; alla pietà del gesto è sottesa la funzione latente di difendersi dalla sua pericolosità oggettiva: gli occhi aperti potrebbero contagiare e attrarre alla morte i superstiti.1 (…)

L'uscita della salma dalla casa - la sua sofferta espulsione - scandisce il passaggio dalla dimensione privata del lutto a quella pubblica, costituendo un momento di particolare lacerazione e tensione emotiva in cui si assommano tutti i momenti di crisi e relativi accorgimenti rituali. Si rinnovano il pianto ed i lamenti dei familiari e si ricorre a tutte quelle tecniche che superano, nell'ideologia popolare, la resistenza del morto ad allontanarsi definitivamente dalla sua casa. A Bella di Nicastro, nel sollevare la bara da terra si dice per due volte: Jamunindi (andiamocene), chiamando il morto per nome; altrimenti si crede che diverrebbe così pesante da rendere impossibile sollevarlo”.2 (…)
[…] "La notte è il tempo propizio per il morto, è il tempo più simile alla morte: la presenza degli uomini può, forse, significare la necessità culturale di rafforzare le difese e il controllo sulla morte del morto. La veglia funebre è il tempo della pietà e della straziata solidarietà al morto, ma tradisce anche la esigenza di controllo e di difesa.3 (…)

"E' necessario che il morto resti almeno una notte in casa perché la sua anima deve passare u ponti 'i San Jacupu ( ponte di San Giacomo), che è sottile come un filo di capello. Si crede che, se il morto ha pochi peccati, è agile e attraversa, quindi, il ponte senza difficoltà; se, al contrario, ne ha molti è pesante e impacciato e non potrà attraversarlo agevolmente. Il passaggio avviene a mezzanotte e viene segnalato da uno scricchiolio che si avverte nella camera dove giace il cadavere, per cui a mezzanotte tutti i "veglianti" smettono di parlare o di lamentarsi. Se il morto non rimane in casa almeno una notte ed un giorno, si crede che questo passaggio avverrà dopo quaranta giorni di penitenza." 4
(….) ”I cimiteri dei paesi meridionali nel loro assetto urbanistico tradizionale sono situati in genere al di fuori del paese. Su tale collocazione ha indubbiamente influito in maniera decisiva la legislazione sanitaria, anche se spesso, dietro le motivazioni tecniche, sono operanti esigenze e preoccupazioni legate all'ideologia della morte. Le lapidi e la ricorrente presenza nelle iscrizioni di alcuni espressioni - quali "pace eterna", "riposa in pace", e così via - e in genere le pietre tombali "completano lo sbarramento tra la cerchia dei viventi e il domicilio dei morti, l'iscrizione "riposa in pace" è l'antica formula di scongiuro contro il cadavere che ritorna, contro il viaggiatore che provoca sventure”. 5 (...)



Citazioni:

 LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI, MARIANO MELIGRANA, Il ponte di San Giacomo, SELLERIO EDITORE PALERMO,1989,  p. 41

Ibidem, p. 49

Ibidem, p. 47

Ibidem, p. 161

Ibidem, p.55:

                                         

…..Note


L’anno scorso, recandomi al  cimitero, mi è capitato di visitare la  cappella del prof. Giovanni  De Giacomo.
Il mio spirito di ricercatrice, nonché di appassionata lettrice dello scrittore, mi ha spinto a “registrare” tutto ciò che vedevo e che poteva attirare la mia attenzione.





All’esterno, la struttura in mattone costituita da spiragli senza vetri e cemento sparso in maniera disordinata, dà l’impressione  di “incompletezza”  e allo stesso tempo dello stato di abbandono e degrado in cui versa la cappella.
Il cancello che dà l’accesso alla struttura è deteriorato, e all’interno, la lapide, posta immediatamente alla sinistra,  ha tutte le caratteristiche dei monumenti sepolcrali  di una volta: basta notare il porta fiori, il porta lume  e  la croce .
Pochi fiori omaggiano le spoglie di questo grande poeta.  Ma perché?
Mi chiedo come mai una persona che è stata così importante per Cetraro non abbia avuto dalla sua città la dovuta riconoscenza.  Forse questo spiega come mai,  molti degli abitanti, non conoscono affatto questa figura di spicco della prima metà dell’800.
 La noncuranza di “chi di dovere” ha permesso, purtroppo,  un “deficit “ culturale che è possibile recuperare solo con attività continue di formazione e ricerca, inventando  strategie di recupero e di interesse verso le tradizioni locali. 



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